La metà partita che il neo barbuto manager italo-svizzero-canadese ha giocato in casa nostra è aver buttato fuori dalla fabbrica la Fiom, discriminando i lavoratori di quel sindacato, come negli anni peggiori della storia industriale italiana. Per il resto, zero assoluto. Ammanta, invece, con piume di pavone il consolidato Fiat-Chrysler 2011, sventolando ai quattro venti i 59,9 miliardi di dollari, con un utile della gestione ordinaria di 2,3 miliardi e un risultato netto di 1,6 miliardi. Gratti un po' e capisci che le auto del Gruppo Fiat, in Europa, hanno chiuso i conti in rosso per 15 milioni. In Italia, a gennaio, il quadro è diventato addirittura tragico, col peggior risultato degli ultimi vent'anni: meno 17,5% Fiat, meno 2,3 Lancia, meno 33,3 Alfa Romeo. E di piani produttivi, per ora, c'è appena appena il restyling della Panda. Pensate un po'.
È per questo che Marchionne ha bisogno d'indottrinare l'opinione pubblica italiana con un Carosello d'altri tempi? «Scegliamo quale Italia vogliamo essere, quella capace di grandi imprese industriali o quella che si accontenta dell'immagine che ci appiccicano addosso», fa dire al suo spot girato in Costiera Amalfitana con la comparsata degli operai «buoni» riassunti in fabbrica. Se contano i fatti — come recita il «consiglio per gli acquisti» made in Italy, già ribattezzato il «Manifesto di Pomigliano» — il leader del Lingotto dovrebbe coprirsi il capo di cenere, non mettere l'abito del santone. Sarà stato per l'inconsistenza dei progetti industriali, prospettati — a suo tempo — per acquisire Opel, che Angela Merkel e i sindacati tedeschi lo accompagnarono, insieme, alla porta?
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