
Su quanto è avvenuto alla Fiera di Bergamo, il giorno dopo abbiamo letto quasi tutto: gli umori della platea armata di scope, le lacrime di Bossi, le espressioni accigliate di Calderoli. E poi la saggina impugnata anche dal pretendente al trono. Nessuno ha fatto notare quella frase di troppo. È convinto davvero il nuovo capo in pectore della Lega che un sindacato finto diventerà vero se a «guidarlo» ci andrà — mettiamo — un milanese al posto di una brindisina caduta ora in disgrazia?
Intanto qualche domanda va pur posta. Se persino la banca centrale della Tanzania ha sentito puzza di bruciato nei 5 milioni di euro mandati dal tesoriere della Lega allo sportello della filiale di Cipro, come ha fatto un ministro dell'Interno a non sentire alcun campanello d'allarme? Abbiamo capito che le stanze di Via Bellerio erano blindate e insonorizzate dal cosiddetto cerchio magico, ma dobbiamo anche credere che il Viminale non abbia più occhi e orecchi per capire cosa si muove nel paese, e nella 'Ndrangheta che deve combattere — con cui trafficava proprio il tesoriere del partito del ministro?
Umberto Bossi se l'è cavata — anche alla Fiera di Bergamo — con l'allusione a un qualche complotto degli immancabili servizi segreti. Che non l'avrebbero avvertito — pensate un po' — di che pasta fosse fatto il «vicepresidente di Finmeccanica» (così ha definito Francesco Belsito, suo autista personale), da lui stesso infilato nel consiglio d'amministrazione di un'azienda strategica del paese, prima di affidargli direttamente il tesoro del partito. Coi risultati oggi noti. Un Bossi «raggirato», è andato a dire in Procura l'ex ministro Maroni il giorno dopo a Milano. Ai magistrati ha fatto anche i nomi?
«La Lega funziona a compartimenti stagni», s'è tolto d'impaccio l'ex capogruppo leghista alla Camera dei deputati che ha assunto l'autista-bancomat (coi soldi pubblici) per il figlio di Bossi, interpellato sugli scandali che travolgono il suo partito. No, non s'è mai accorto di nulla il «governatore» — si fa per dire — del Piemonte. Pur passando più tempo a Roma, Milano o Gemonio che a Torino in Piazza Castello o a Palazzo Lascaris, Roberto Cota se c'era dormiva. O non capiva. Sveltissimo oggi a smarcarsi — buon sangue democristiano non mente —, per non essere travolto dalle disgrazie del suo capo, a cui ha retto con dedizione pubblica persino il portacenere.
Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo. Se non quel «ministro dormiente»» che si alterna a un «barbaro sognante». Ci crede davvero tutti fessi, onorevole Maroni?
■ (mercoledì 11 aprile 2012)
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