
Le “larghe intese” volute dal Quirinale mostrano già la corda. E Berlusconi prepara l'ultimo salto, a fauci spalancate, verso il Colle più alto
▇ «C'è da chiedersi se chi ha architettato questa stretta politica (“larghe intese” è quasi un ossimoro: sono state decise in molta ristretta sfera) avesse messo nel conto questo effetto di ulteriore straniamento. E, nel caso lo avesse messo nel conto, se ne è contento, perché proprio questa era la mira, levare la politica dalle mani di chi non è abbastanza cauto, abbastanza professionista; oppure se questa lontananza [la resa delle persone «munite di passione civica», ndr] lo spaventa, ne avverte il peso, la patologica cappa di silenzio».
L'ho ripresa in ampia parte, “L'amaca” di Michele Serra pubblicata oggi su Repubblica. La condivido tutta, e ci ho visto in controluce — mi perdoni Serra, se del caso — il profilo nettissimo del presidente Napolitano. Poteva, dal Quirinale, un uomo della sua esperienza, non mettere in conto lo smarrimento di un intero popolo, quello della sinistra? L'alleanza forzata col più impresentabile degli uomini politici occidentali non poteva produrre altro che lo «sfinimento» di chi oggi è costretto a pensarla proprio come scrive Serra: «qualunque cosa accada, io non posso farci più niente».
La scelta «necessitata» — e così tanto caldeggiata nei mesi precedenti dal rieletto presidente della Repubblica — di un governo col Pdl di Berlusconi era stata preceduta dall'imboscata contro Romano Prodi nella corsa al Quirinale. 101 “incappucciati” nelle cabine elettorali di Montecitorio non potevano non sapere quali «larghe intese» sarebbero andati ad aprire: una voragine spaventosa sotto i piedi di chi li aveva mandati sin là, non a far danni. Difatti, ecco la riedizione, appena appena ringiovanita, del governo Monti. Affidata — colmo di perfidia politica? — al vice di Bersani. L'ex capo democratico s'era dovuto arrendere dietro la Sala alla Vetrata, sulla soglia dell'incarico con cui pensava di perseguire altri, pur ardui e inusitati, orizzonti.
E il Pd è imploso. Strategie divergenti, arrivismi personali, correntismo paralizzante. C'è questo ed altro ancora nell'ultimo mese e mezzo consumato a sinistra. C'è soprattutto lo svuotamento di ogni spinta a un cambiamento culturale, sociale e, possibilmente, nell'etica pubblica. Ad implodere potrebbe essere, ora, addirittura, l'attuale Presidenza della Repubblica sovraesposta, per sua scelta e volontà, a tempeste politiche dirompenti, con o senza condanne penali definitive del boss della destra italiana.
Volente o meno, dal Quirinale, negli ultimi due anni e mezzo (ne ho scritto qui più volte, inutile insistere) si è alimentato il «presidenzialismo preterintenzionale» (copyright di Ilvo Diamanti), senza regole scritte né armonizzate col quadro parlamentare vigente, e neanche in discussione se non fra qualche “saggio”. Col rischio ulteriore di covare — consapevole o meno, poco importa — l'«uovo del serpente». Meglio, l'uovo del caimano: a fauci spalancate, Berlusconi è pronto all'ultimo salto verso il Colle più alto della politica italiana, stanti le regole attuali sul conflitto d'interessi e la pavidità dei suoi avversari, per non dire della loro inconsistenza politica.
«Ben scavato, vecchia talpa!», usava dirsi ad ogni successo politico quando Giorgio Napolitano varcò la prima volta il portone di Montecitorio, sessant'anni fa. Stavolta no, non si può dire. «Chi fa politica, da sempre, non può odiarla al punto di non capire che questa situazione è anormale, penosa come una partita giocata a porte chiuse, in uno stadio vuoto», conclude Michele Serra. Sottoscrivo. A mio avviso, il quadro vale per Napolitano, per D'Alema (l'eterno “predestinato” ad essere er mejo fico der bigoncio, dai piccoli pionieri del Pci in poi, mezzo secolo fa: giusto per dire). E poi per Marini, Fioroni. O per chi altri vogliate.
■ (martedì 14 maggio 2013)
[credit, foto Ansa]
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