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MEMORANDUM
di RICCARDO LUNA
«Non c'è stato un
momento "eureka" nella creazione del Web. Un momento preciso in cui ho
detto: è fatta! È stato piuttosto un percorso lungo. Se devo indicare un
inizio potrebbe essere addirittura il 1980 quando scrissi un programma
che si chiamava Enquire: io ero un giovane fisico e lavoravo al Cern di
Ginevra. Quel programma mi serviva a tenere traccia del complesso di
relazioni fra persone, idee, progetti e computer di quella straordinaria
comunità di scienziati. Era solo ad uso personale. Poi nel 1989 scrissi
un memo ai miei capi, un memo storico anche se allora non potevo
saperlo. Proponevo di creare uno spazio comune dove mettere le
informazioni a disposizione di tutti: lo chiamai il Web. L'idea era
avere una rete dove chiunque potesse facilmente avere accesso a
qualunque informazione, e dove aggiungere informazioni fosse altrettanto
facile. Nel 1991 già funzionava fra gli scienziati e ho iniziato a
diffonderla nel resto del mondo. Sono passati vent'anni esatti e posso
dire che abbiamo avuto un certo successo...».
Tim Berners Lee ha 56
anni, è nato a Londra ma ormai da tempo vive e insegna al Mit di Boston;
ha vinto il Millennium Prize, è considerato una delle 100 persone più
importanti del secolo scorso e la regina Elisabetta II lo ha nominato
cavaliere nel 2004. Per questo è diventato "sir". Ma il titolo più
importante glielo ha dato la Storia, con la maiuscola: è il creatore del
World wide web. Stenta a credere che per molti Internet e il Web
siano sinonimi. «Qualche giorno fa in Polonia stavo cercando di spiegare
ai traduttori la differenza fra Internet e il Web. Visto che non ci
riuscivo, ho chiesto: come spiegate il periodo che passa fra
l'invenzione di Internet, 40 anni fa, e quella del Web, 20 anni dopo? E
loro mi hanno risposto: 40 anni fa avevamo il comunismo e quindi per noi
i due concetti sono sinonimi. In Italia la sapete la differenza?». Per
parlare del futuro di Internet, della necessità che tutti abbiano
accesso alla rete e per soffiare sulle prime venti candeline del www,
sir Tim oggi è a Roma dove aprirà una conferenza a lui dedicata: «Happybirthday web».
— Wikipedia indica nel 6 agosto 1991
la nascita del Web, ovvero la messa in rete del primo sito: info.cern.ch. È una data speciale che dobbiamo trasmettere ai nostri figli?
Avete in qualche modo festeggiato?
«A dire il vero non
molto. Il 6 agosto 1991 ho solo mandato un messaggio al newsgroup
alt.hypertext per far conoscere il Web al resto del mondo. Ma era già
disponibile all'interno della comunità del Cern. Per me già esisteva».
— Molti
dicono: Berners Lee è stato bravo, ma il Web l'ha creato per caso
mentre cercava di costruire un sistema per la gestione delle
informazioni.
«Assolutamente no! Infatti lo chiamai subito
World wide web, la grande rete del mondo, anche se molti mi diedero del
presuntuoso. E gli indirizzi dei siti, le Url, le volevo chiamare
Universal resource identifier. Ma quel nome fu bocciato dalla comunità
degli ingegneri. Mi dissero: come puoi definire questa cosa
'universale'? E io, che ero l'ultimo arrivato in quell'ambiente,
cedetti: ok, chiamiamolo Uniform, dissi, così almeno non cambiava
sigla».
— Per difendere l'apertura del Web, spesso si dice:
è una piattaforma per l'innovazione. Difficile dirlo a chi pensa che
Internet serva solo a mandare mail o aggiornare lo status su Facebook.
«Intanto
va detto che quando la gente manda una mail o sta in un social network,
spesso ha uno scopo creativo. L'idea del Web, quello che sta dietro
tutto, è che se una persona ha una mezza buona idea e l'altra metà sta
nella testa di un altro, il Web è il connettore che permette alle due
metà del cerchio di unirsi. L'idea è una rete da tessere».
— È un'arma di costruzione di massa.
«Bella
definizione. Questa è l'innovazione del Web. Non tutte le tecnologie
portano innovazione. Una tecnologia può essere di 'fondamenta' o di
'soffitto'. La prima è la base che supporterà sviluppi sempre più
importanti. L'altra no: è progettata per creare un valore immediato e
quindi denaro al suo fornitore. Il Web è una tecnologia 'fondamentale'».
— Sul fronte opposto stanno sistemi come quelli adottati da Apple e Facebook?
«C'è
una battaglia, o meglio, una tensione costruttiva, fra l'esigenza di
fare soldi e quella di innovare. Un'azienda può avere la necessità di
controllare l'intero sistema per fornire buone prestazioni e acquisire
clienti e quindi pagare bene i propri programmatori. Ma se finisce con
l'essere troppo dominante e chiusa limitando la libertà della gente,
perderà mercato. Un giardino meraviglioso ma chiuso non può competere
con la bellezza di una folle e indomita giungla».
— Il giardino della Apple ha perso il suo giardiniere. Qual è stata la sua reazione alla notizia della morte di Steve Jobs?
«Ho
scritto un post sul mio blog. Una volta ci siamo quasi incontrati in
una riunione di sviluppatori di NeXT in Francia. Lui osservò molte cose
in quella stanza, ma andò via prima di poter notare il World wide web".
— Il
NeXT era il computer visionario che Jobs realizzò quando venne
licenziato dalla Apple. E su un NeXT lei ha scritto il codice del Web.
Insomma, era un po' anche roba sua...
«È vero, scrissi il
progetto su un NeXT e fu incredibilmente facile. Era un computer che
veniva dal futuro. Ricordo lo stupore quando mi arrivò e lo scartai, nel
settembre 1990. La mail era già configurata e si apriva automaticamente
con un messaggio audio di Jobs in persona che iniziava così: "Non
stiamo più parlando di personal computer ma di interpersonal computing,
collaborazione fra le persone". Geniale! In quegli anni chi aveva un
computer era molto frustrato. E Steve Jobs lo aveva capito. Aveva capito
che i computer dovevano essere utili, collaborare con l'utente e fare
ciò che l'utente si aspetta; e poi essere lineari, facili da usare e
belli da vedere. Oggi lo diamo per scontato: del resto il sistema
operativo del Mac e dell'iPhone si basa sul NeXT...».
— Parliamo dell'Italia: siamo molto indietro per la diffusione della Rete. Che cosa ci stiamo perdendo?
«Prima
di tutto penso che l'ubiquità della Rete sia più importante della
velocità. La velocità è importante se vuoi vedere un video in alta
definizione; ma l'ubiquità, anche con connessioni più lente, significa
che puoi ricevere e spedire la posta e far parte dell'economia digitale.
E poi: dando una banda larga minima a tutti si possono spostare i
pagamenti pubblici online risparmiando un sacco di soldi. Insomma, penso
che dovreste fare un grosso sforzo per colmare il divario digitale, per
portare la Rete anche nelle aree rurali e in quei luoghi dove c'è gente
che semplicemente non ha ancora imparato ad usare questa tecnologia.
Questo significa anche creare luoghi pubblici dove tutti possono
usufruire della Rete: immagino Internet-Point nelle piccole città e nei
paesini dove andare per pagare il bollo dell'auto online, o cercare un
lavoro, ritrovare i parenti che si sono persi di vista da tempo, mettere
in vendita la macchina, insomma fare quelle cose che la gente ancora
non sa fare online».
— La scelta che sta facendo l'Italia
sembra l'opposto: portare la banda ultralarga nelle grandi città e nelle
aree industriali, e lasciare indietro gli altri.
«Non è
solo una questione di altruismo, il punto è come rendere il Paese più
operativo e funzionale. Si tratta di capire se un Paese è serio oppure
no. È un Paese serio quello in cui non si riescono a raggiungere
contemporaneamente tutte le persone, e la gente non è informata
tempestivamente su quello che succede, e non è in grado di rispondere
alle emergenze? No, non è un Paese dove investire».
— L'Open
government, ovvero quella serie di politiche che coinvolgono i
cittadini nella amministrazione attraverso trasparenza e strumenti di
partecipazione, può contribuire a diffondere l'uso del Web?
«Un
governo digitale è molto più efficiente di un governo basato sulla
carta, perciò prima il Paese abbatte il digital divide e meglio è. Ma
l'Open government vuol dire arrivare a coinvolgere i cittadini per
ottenere un feedback e magari una consulenza spontanea. È molto di più.
Poi, c'è tutta la questione degli Open Data...».
— A che punto è arrivata la campagna per liberare i dati pubblici?
«I
dati che il governo ha nei suoi archivi sono una risorsa preziosa per
migliorarci la vita. Sapere, ad esempio, se un certo treno è in funzione
e sta viaggiando, quali strade hanno delle buche, dove si trova la
posta più vicina, il numero di crimini commessi in una determinata area
del Paese, dove sono custoditi i piani di emergenza anti-alluvione...
Essere in possesso di questo tipo di informazioni può far prendere
decisioni migliori. E poi, c'è la trasparenza, che alcuni mettono al
primo posto. In Gran Bretagna sta diventando normale che i dati relativi
alla spesa pubblica siano "aperti". Il Web è il luogo dove tutti
possono verificare come vengono spesi i soldi dei cittadini».
— Dopo 20 anni, il Web è diventato quello che aveva immaginato?
«Sono
molto contento della quantità incredibile di cose successe, ma
purtroppo non vedo tanta gente che usa il Web in modo efficace per
realizzare nuove idee. Internet è nato come piattaforma per lavorare
insieme, e invece quasi tutti si limitano a usarlo per leggere e basta.
Evidentemente gli strumenti di collaborazione che abbiamo non sono
ancora adeguati».
— Dice "ancora" perché sta lavorando a un progetto di questo tipo?
«Sì,
sono entusiasta di progettare, tra le altre cose, strumenti per il Web
semantico che si basano sul concetto di dati collegati fra loro. Il Web
semantico riguarda i dati, mentre i motori di ricerca lavorano con
documenti ipertestuali. La sfida dei motori di ricerca è stata di
cercare di creare una struttura dove non c'era alcuna struttura,
tentando di infondere ordine e significato laddove non vi erano né
ordine né significato; mentre con i dati l'ordine e il significato ci
sono già. Quando si dispone di dati in un archivio, essi sono già ben
ordinati e ben strutturati e hanno un significato molto più definito di
gran parte dei contenuti presenti sul Web. Adesso finalmente sempre più
persone stanno capendo il valore dei "linked open data". Sarà così il
nuovo Web e sarà più intelligente».
— Il Web ha creato moltissimi ricchi: ha rimpianti di non essersi arricchito?
«No.
Se qualcuno mi vuole dare un sacco di soldi, a me non dispiace. Ma a me
non dà fastidio che la gente abbia aperto attività sul Web e sia
diventata ricca, anzi».
— Oltre due miliardi di persone usano il Web. Percepisce l'apprezzamento della gente per quello che ha fatto?
«Sì,
un apprezzamento immenso. Però sono anche molto contento di non essere
riconosciuto per strada! Vorrei dire un'ultima cosa...».
— Prego.
«Vorrei
solo ricordare il sito "WebFoundation.org". Si tratta di una nuova
Fondazione per combattere il divario digitale: c'è un vero abisso di
opportunità tra coloro che hanno Internet e utilizzano il Web in modo
efficace, e tutti gli altri. Di fatto, il collegamento alla Rete sta
diventando così importante per l'umanità che ormai potremmo pensare
all'accesso ad Internet come a un diritto universale. Il Nobel per la
pace Liu Xiaobo ha definito Internet un dono di dio; bello, ma io
preferisco parlarne come di un diritto dell'uomo».
[14 novembre 2011]
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